Veronica Vitale, nota anche come I-VEE e fondatrice del genere musicale “Fluid / Liquid Pop” è un’artista a tuttotondo. Italo-americana, si è fatta conoscere dapprima nel resto el mondo e ora, con un ampio bagaglio culturale e professionale, punta a far innamorare l’Italia. Ha 3 lauree, è compositore, pianista e music
producer d’avanguardia…ed ecco cosa ci ha raccontato in esclusiva!

Come ti presenteresti a chi, in Italia, ancora non ti conosce?

“La mia è la storia di una outsider e nasce al contrario, all’estero e non in Italia. Ho sempre pagato ogni grammo di felicità con un chilogrammo di dolore e la mia verità è che invece del classico lieto fine ‘e vissero felici e contenti’ ho preferito la morale: non puoi vivere la tua fiaba se ti manca il coraggio di entrare nel bosco. Sono un’alchimista del suono, un artigiano della musica, ed un’artista che cavalca la crisi. Mi volevano donna ma io ero nata guerriero della luce – come quello descritto da Paulo Coelho – con una storia da raccontare, una di quelle accompagnate da una fantastica colonna sonora che a volte, si fa POP”.

Sei stata per ben 10 anni in America e lì hai avuto grande successo. Com’è iniziata questa avventura?

“Come una piuma in una leggera corrente ascensionale, non forte, ma costante. La vita degli artisti è un insieme di coincidenze e circostanze e per me ‘l’America’ inizia nel 2012 a Wahiawa, Oahu, Hawaii. Ho vissuto prima le isole degli Stati Uniti per poi spostarmi nella Mainland nel 2013, a Seattle andando anche spesso in Canada per la Jimi Hendrix Family Foundation. Ho vissuto le due anime dell’America del Nord, quella della West Coast e delle isole in cui il tempo invece è relativo. Se avessi commesso l’errore di credere che gli Stati Uniti iniziano e finiscono a New York, avrei perso l’occasione di capire davvero il continente in cui ora vivo. New York l’ho corteggiata solo dopo aver attraversato ogni altro stato. La decisione di partire la presi nel mezzo del contratto che firmai in Germania, accordo che era vincolante e quindi fino al 2014 non avrei potuto pubblicare musica senza doverne dare conto. Così decisi di fare della mia partenza una rivoluzionaria ricerca dentro me stessa, un caos alla ricerca di stelle. Da ‘certi viaggi’ non si fa mai più ritorno. Giorni in cui ho inghiottito il mondo e in cui dentro me cresceva nuova musica. La musica che ascolti in ogni produzione pubblicata dal 2020 in poi, quella, sono io”.

Quali sono stati i riconoscimenti più grandi ricevuti negli States?

“Se per riconoscimenti intendi ‘premi ed awards, lasciati dire che nessun artista vero o serio sta lì a far l’elenco dei propri riconoscimenti, a meno che non si tratti del Grammy Music Awards. Tutto il resto si festeggia nel momento e lo si lascia alle spalle su uno scaffale per ricordare dove siamo passati. Io considero veri riconoscimenti tutte le volte che enti importanti, come il Children’s Hospital e Ryan Secrests, mi hanno dato ‘accettazione’ facendomi entrare da outsider”nel loro settore e permettendomi di aggiungere la mia firma per progetti importanti. Oppure quando mezzo mondo ha risposto alla mia call for artists nel 2020 per partecipare alla mia Hymn to Humanity (preghiera per l’umanità) in tempo di crisi. Fare qualcosa di buono anche per una sola persona, quello è un vero riconoscimento. Le statuette restano in terra, l’amore ti segue in cielo”.

Cosa c’è di diverso tra il mercato discografico americano e quello italiano?

“Si tratta di due mercati paralleli. Rispetto all’Italia, prima di tutto la meritocrazia, lavoro in alta definizione, la tutela giuridica dell’artista, le regole che si rispettano, un determinato ordine nel disciplinare le cose e la libertà di essere chi hai scelto di essere. La verità è che in America se metti giù la testa e lavori sodo vieni ripagato. Se sei un’artista internazionale è così che vieni chiamato, non ci sono compromessi. In Italia a volte ci si piega troppo, qualcuno trova difficoltà nel descrivere un’artista per ciò che è, dargli credito e merito e si dice invece l’inverosimile di chi magari non ha storia o fatto assolutamente nulla. Si fa ‘sugarcoating’ e io non lavoro nella terra ‘in cui sembri di essere’, io lavoro nella terra in cui Tu Sei”.

Cosa dovremmo cambiare del nostro mondo discografico italiano?

“Smetterla di copiare il mercato americano, per iniziare. Aggiungere alternative ai talent show, ma soprattutto dimezzare i tempi di come si realizza tutto”.

Oggi sei qui in Italia, il tuo Paese, per promuovere il tuo ultimo singolo, Transparent. Come mai hai scelto di farlo uscire qui?

“Transparent è stato pubblicato come ogni mia produzione in worldwide e cioè su territorio mondo. L’Italia è sempre stata inclusa nei nostri lanci discografici. Credo che la differenza questa volta sia nell’aver percorso una lunga strada prima di arrivare anche qui. Non ci si sveglia un mattina già famosi. Quando semini, prima o poi raccogli, a meno che non semini vento, in quel caso raccogli solo tempesta. Io non ho mai lasciato per non tornare. Con Transparent, presento una produzione visivamente e musicalmente d’impatto e spigolosa, è un sound epico, granitico, alienato, nuovo e liquido e credo sia normale che l’eco degli italiani nel mondo che fanno tanto ritorni prima o poi come una grande voce in Italia, perché appunto, siamo italiani. Io sono italiana”.

Si parla di bullismo nel testo del brano: è un argomento a te caro?

“Si, sono stata vittima di bullismo a 11 anni, rivissuto poi in diverse forme tramite social network, anche recentemente, con pesanti forme di accanimento”.

Cosa potremmo fare, secondo te, per aumentare la sensibilizzazione al problema e per, eventualmente, ridurlo?

“Lavorare ad una giurisprudenza con la quale intervenire senza giustifiche”.

Nel testo tocchi anche temi quali l’abuso di potere e l’autolesionismo…ci sono episodi che hai vissuto in prima persona e ti hanno spinto a scrivere di questo?

“Esiste un luogo, nella mia storia, in cui condivido sia luci che ombre e in cui non è permessa nessuna felicità. Fosse dipeso da alcuni, in questo luogo, io non sarei dovuta nemmeno essere in vita. Se il mio successo, o la mia vita, fossero dipesi esclusivamente da ‘alcuni di loro’ a quest’ora sarei appesa a dei lavagetti elettrici di qualche tipo. Piccole scosse, come fruste, tanto per tenermi in vita, ma ridotta a un vegetale, immobile, un esserino inerme, sottile, attaccata all’amo, in un letto d’ospedale, o dietro la parete di un manicomio. Io so cosa volevano per me e loro sanno che io so. Per questa ragione, quel luogo resterà l’unico al mondo che non crederà mai in me. Io ho scelto la parola outsider, ma per molti anni era soltanto ‘alieno’, in mancanza di terra, con occhi grandi ma pieni di disperazione, io mi sono diretta verso le stelle. Soltanto io,e la mia microscopica navicella spaziale”.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

“Essere felice”.

Quali palchi nazionali vorresti calcare?

“L’unico palco di cui non si dice mai niente a nessuno fino a che non ci sali”.

C’è un nostro big con il quale vorresti collaborare, perché?

“Tiziano Ferro perché siamo uguali. Una vita di incontri mancati, dentro un inverno senza fine”.

Gli lanciamo una sorta di “appello”?

“Sono la tarantola d’africa’ – P.S Siamo anche entrambi a Los Angeles adesso, dimmi a che ora posso passare a prenderti, così andiamo a riconcorrere le onde giganti a Venice Beach”.