“Ready?”…Kurt Cobain inizia così “On a plain” nell’unplugged di New York del ‘93.
Si rivolge ai musicisti dando quasi le spalle al pubblico con la sua sedia girevole, dentro il suo maglione dal colore che si confonde con quello della sedia.
A pochi giorni dalla ricorrenza della sua nascita, questa rubrica inizia con la versione unplugged di un suo pezzo, scritto nel ’90 e registrato poi l’anno successivo.
Alcune strofe sono state riprese da un’altra canzone inedita e, come disse lui stesso, da alcune sue poesie. Undicesima traccia dell’album “Nevermind” appare anche questa caratterizzata da parti prive di senso…o magari piene di un significato a noi sconosciuto, ma è proprio questo che la rende fascinosa. A volte è proprio lui stesso a non conoscere il significato delle sue canzoni o a dare versioni diverse dello stesso brano ad ogni intervista. “On a plain” ne è un buon esempio (“What the hell am I trying to say?”; “It is now time to make it unclear to write off lines that don’t make sense”).
Un senso di alienazione pervade la canzone e la “black sheep” citata nel brano sembra essere Cobain stesso. Tra domande, auto-accuse e una logica che sfugge, Cobain si rimprovera riferendosi alla droga, all’egoismo, alla sua sincerità senza filtri, per poi comunque rigettare tutto. Traspare inoltre un’allusione ad una vena artistica altalenante, ad una sorta di “blocco dello scrittore” («I’ll start this off without any words»).
In questa versione unplugged, Kurt non alza mai lo sguardo. Con irrazionale genialità e una poetica semplicità e naturalezza, canta dell’assurdo senza pretendere di spiegarlo. Un assurdo permeato da verità personali che lo rendono forte e fragile allo stesso tempo. Con voce convinta e spezzata, graffiante e a tratti stranamente soffusa e innocente.
Tra musicisti scalzi, tra chitarre colorate e un pubblico che ascolta incantato a ogni lato della sala, candele e un leggio, il violoncello di Lori Goldston rende questa canzone ancor più un’amara carezza.